1. Nell’ultimo trentennio del sec. XIX Antonio De Nino (1833-1907) individuava durante ostinate ma fortunate escursioni nel Cicolano le vestigia di una civiltà antichissima, che – come deduceva – gli sembrò subito quella mitica dei Pelasgi; nello stesso periodo, muovendosi instancabilmente di paese in paese e contando su intermediari, raccoglieva notizie di usi e di costumi, e testi di narrazioni
tradizionali nei quattro comuni (Borgocollefegato, ora Borgorose, Fiamignano, Pescoroccchiano, Petrella Salto) della stessa regione.
Aveva fermo il proposito di provvedere ad una Raccolta «completa e seria di usi e costumi» dell’intero suo Abruzzo, che per non poche ‘bizzarrie’ riusciva a lui stesso – come ammetteva – «caratteristico». Ma certo anche le memorie di figure e di fatti della provincia – così come le avrebbe potuto cogliere dalla voce della gente comune oltre che dalle relazioni, libri o altri scritti dei più informati del luogo eruditi e no – ne avrebbero potuto fare parte. In tal modo egli abbracciava «la vita reale del popolo, colle sue assidue vicende, dall’amore alla morte» – ne era convinto – ovvero tutte le opere di esso assieme agli umori e sentimenti, giudizi e convincimenti che le accompagnavano, come nella pratica succedeva dinanzi agli occhi di tutti.
Era da credere che «l’aspetto sostanziale del popolo» fosse qui – diceva –, nel complesso degli usi e costumi correnti che infittivano: usi «comuni» che non erano all’epoca ancora tramontati, ed altri, invece particolari, che, «generalmente scomparsi», erano però «rimasti soltanto nei piccoli paesi e nelle città isolate», e sempre servivano, per fortuna, «quale anello di congiunzione tra la civiltà antica e la moderna».
A. De Nino apprestava in tal modo dall’Abruzzo i materiali e i modi per una «vera storia del popolo italiano». In definitiva, considerando anche l’apporto, richiesto e augurabile, del complesso delle tradizioni scritte regionali, avviava all’epoca dall’Abruzzo un modello di ‘nuova’ e viva storia patria.
Era – come lui stesso si considerava, e voleva rimanere – un «semplice raccoglitore di materiali etnografici». Questi, riuniti, sarebbero serviti come utili «contribut[i] alla storia generale d’Italia».
2. Il 1 marzo 1907 De Nino moriva a Sulmona. Il Comune volle fargli i funerali a proprie spese, e i funerali, «oltre che imponenti, riuscirono commoventissimi». Seguì, il 9 dello stesso mese, un denso necrologio di Tito Battaglini sull’Indipendente di Aquila. Tutto – funerali e necrologio – era espressione di «trafittura di dolore immenso, indicibile» che si prova per la scomparsa dello studioso, e tutto scioglieva in sincera riconoscenza per la sua opera che da Sulmona aveva abbracciato l’intero Abruzzo con il fine di mostrarne adeguatamente i caratteri.
T. Battaglini giudicò che De Nino fosse stato «più propriamente […] un poeta del passato» ovvero delle «nostre glorie passate» – e lo proclamava – , piuttosto che un «archeologo esimio» o «folklorista geniale» come altri pur tenevano a definirlo. Sapeva anche lui che un irrefrenabile spirito d’indagine lo aveva mosso occupandolo, in definitiva, in molteplici campi di osservazione e studio, eppure a quello spirito dava (esclusivamente) la finalità ultima o «sogno nobile» di «strappare, per quanto era possibile, come un ‘thesauro abscondito in agro’ i misteri della grandezza avita dal seno tenebroso del passato; [e di] fare risentire all’attuale generazione i fremiti potenti delle glorie di sua schiatta». Esclamava: «Eccola l’eredità di Antonio De Nino!».
Ancora, ripeteva di buon grado che l’opera coscienziosa e perseverante di De Nino aveva «aperto […] il grembo del passato», e che, a questo aveva strappato «nuovi segreti, nuovi fasti», in pratica «fatti e […] glorie sconosciuti che gli altri non avevano mai compreso». Amava concludere che quei fatti e quelle glorie erano come tanti rubini e tanti diamanti che impreziosissero «vieppiù il genio glorioso» abruzzese.
Nel momento tragico per la perdita di De Nino comunque non poteva essere dimenticato che il suo notissimo ‘girondolare’ per l’Abruzzo era stato, invece, per metterne in evidenza «la vita intima del popolo» dei suoi tempi.
Il folklorista scomparso aveva bene indicato, in vita, i principali ‘luoghi’ che secondo lui sono come fucine per la storia di popolo: il «focolare domestico, […] le conversazioni degli amici, […] le chiese, […] i caffè, […] le canove, […] le piazze, […] le borse, […] i teatri, […] le stazioni di strade ferrate, […] le caserme, […] le prigioni, […] le botteghe, […] le officine, […] le capanne». Indicava che lì «e non altrove» bisognasse «ricercare le origini degli avvenimenti politici, e anche di quelli più clamorosi».
Andava da sé – come gli sembrava – che in quegli stessi ‘luoghi’ fossero praticate le tradizioni (non soltanto quelle degli usi), fino a che fossero servite anch’esse utilmente per esercitare la contemporaneità del vivere. E certo fra esse, alcune già s’erano affievolite fino a divenire «stran[e] alla generalità» e isolate ovvero fino a dichiararsi sopravvivenze di tempi che hanno preceduto: e sarebbero cadute, infine, ma non prima di avere ceduto alle tradizioni rimaste vitali la funzione di mantenere costante il tenue legame con le indefinite età ‘antiche’, che le avevano viste tutte nascere e/o passare.
3. Decisamente vacui né di qualche utilità nei tempi moderni riuscivano più tardi, nel primo ventennio del secolo XX, le credenze e i costumi abruzzesi all’inglese Estella Canziani (1887-1964), membro della «Folk-Lore Society».
La folklorista inglese conosceva quelle credenze e quei costumi attraverso non solo le opere di De Nino ma anche quelle di Gennaro Finamore (1836-1923). Aveva concluso che essi, non più funzionali, non fossero nient’altro che moti di selvatichezza e persuasioni superstiziose di gente moderna sprovveduta ancorché, in alcuni casi, sorprendentemente miserabile. In Abruzzo, dove si recò nel 1913 per darne in seguito alla «Folk-Lore Society» la sua personale testimonianza, le sembrò proprio il caso di confermarseli come perfette sopravvivenze, e di considerare ‘antiche’, per nulla contemporanee, anche le personalità dei loro portatori.
Nel 1928, pubblicando il resoconto del suo viaggio, dava ai connazionali anche l’occasione, già con l’elenco dei suoi intermediari e dei suoi informatori: conducenti di veicoli noleggiati, negozianti, contadine, pastori e altri montanari, ma anche ingegneri, capistazione, preti, sacrestani, farmacisti, maestri, di notare come tali credenze e costumi non potessero, nell’Abruzzo del 1913, limitarsi al volgo ovvero agli «imi strati sociali» che Finamore aveva bollato come «gente che [vive] tuttora nella infanzia mentale» e anzi quanto fossero, in quello stesso Abruzzo, comuni presso il «popolo» cui De Nino aveva detto con orgoglio di appartenere.
4. Settimio Adriani di Fiamignano è un faunista, spesso impegnato a monitorare l’ecosistema del Cicolano. Nondimeno nei lavori specifici del suo ‘mestiere’ non si allontana – se occorra – dalla ‘descrizione’ puntigliosa della condizione tradizionale, in buona parte scomparsa, del proprio paese e territorio.
Non poeta – come pure ammette – s’è cimentato nella composizione in dialetto fiamignanese di «quartine semiserie». Lo ha fatto per puro svago, suo e degli amici di bar o d’osteria (Quartine e quartucci, 2003): ma è dell’opinione che quel dialetto, benché allora in uso, avesse, in verità, bisogno di quelle quartine per riacquistare almeno un po’ di «fiato» ovvero un po’ di forza prima di tornare alla risolutezza originaria di veicolare termini pregnanti per gli umori e i sentimenti quotidiani, gli
stessi lisciati oltremodo dalla lingua nazionale; dice che, sempre allora, ha preferito la quartina tra le altre strofe, perché essa è l’unica che «s’avvicina alla nostra antica forma di rimeggiare». In seguito, ha ridotto in opera letteraria un bel manipolo di memorie correnti sul brigantaggio post-unitario che ha afflitto il Comune di Fiamignano (Racconti di briganti, 2005).
È da credere che gli aspetti demo-antropologici dei luoghi fiamignanesi che esamina siano, nei suoi studi di faunistica, ‘materiali’ complementari irrinunciabili (Pastorizia e agricoltura montana, 2007), ma occorre anche prendere atto che una propensione connaturata, quella di esercitare in ogni caso l’attenzione sulla condizione rurale e passata e presente dell’intero Cicolano, lo trasporti (ne è specchio, a mio parere, Io, la fame e l’accetta, 2007, una ‘storia di vita’ che, suggeritagli dalle fitte notizie dell’informatore intervistato, pure scrive assieme ad altri faunisti).
Quei ‘materiali’ sono, insomma, per S. Adriani come la porta dello stesso Cicolano: per questo stesso indirizzo di ricerca, che egli condivide con altri ricercatori locali, si sfoglino anche i due opuscoli recenti Il corredo della sposa. Tradizione degli anni 1950-1970 nel Cicolano, 2011, e Allegri, figli miei, che il lupo non ve se le mangia più le pecorelle, 2011, che rende nota una imprevista quanto originale officina poetica dialettale e no di poeti-pastori di Fiamignano (di ambedue gli opuscoli sono coautore).
5. È proprio per il moderno Cicolano che Adriani licenzia ora i risultati d’una sua inchiesta (l’ultima in ordine di tempo) su Il maiale. Allevamento (macellazione e conservazione della carne), corredata – come è suo stile compositivo – di ‘materiali’ folklorici appropriati al tema della ricerca (in questo caso sono racconti tradizionali, e indovinelli, stornelli, proverbi, satire e ‘rime’).
Il Cicolano – si sa – è come l’ultima terra dove raccogliere l’ultimo folklore: è spopolato, e i suoi confini si ricordano a se stessi, già per questo difetterebbe di notizie e di testimonianze orali utili allo scopo di ogni inchiesta sul campo, eppure la sua fisionomia provata da trapassi economici e sociali è ferma ad aspettare nuove indagini da nuovi ricercatori.
Nell’aura apparentemente neutra che vi è diffusa Adriani cala con convinzione i modi del suo impegno nell’inchiesta su Il maiale: al riguardo dispone di una documentazione che ha già riunito negli anni 1970 tramite interviste e colloqui, e questa si arricchisce di un’altra documentazione, egualmente necessaria e complementare della prima, che si è premurato di raccogliere di recente con nuove ricerche sul campo e con questionari, assommando tra l’una e l’altra ben ottantasei informatori.
Penso che il Cicolano resti un crocevia. Chi vi dimora sta dentro labili tradizioni, e si affaccia su altre che non si sono allontanate troppo dalle case che siano rimaste invece deserte. Per il momento non immagino diversamente il tornare di tanto in tanto di Adriani nel suo paese di Fiamignano: libero dagli impegni del suo insegnamento a scuola, egli è forse attorno ad un tavolo di bar o nella sede della Pro Loco con amici giovani e vecchi, tra il vocìo di altri avventori o soci e il rumore, all’esterno, di automobili per la strada pubblica, a parlare di questo e di quello, a scambiare opinioni sul senso della salvaguardia del lupo in montagna, a ‘rivangare’ tempi andati e anche remoti, ad ascoltare ‘storie’ antiche e moderne di paese, a rintracciare vecchie lettere e vecchie fotografie e poesie.
Credo che questo sia il ‘tempo presente’ in paese di Adriani faunista e ricercatore di tradizioni. Del resto egli ve lo spenderebbe volentieri: ha sempre giudicato che l’Umanità dei suoi interlocutori fosse infinita. Sa che essa, esercitata in lunga esistenza, ha reso i compaesani più vecchi «veri signori e maestri di vita».
LUCIANO SAREGO