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A Fiamignano. Presso il foro e in alto La Serra

Vero è che villa Flamignani sia ben attiva nel sec. XV. È nel territorio del castrum Podii Piconischi, guardiano, più su, di campi seminativi che aggrediscono Ripa bianca. Non dista un gran che dal castello: è ai piedi sassosi del monte La Serra e dinanzi spinge il sentiero che vi sale. Mercato, altra villa del castello, s’abbarbica a valle, presso un antico crocevia.

Il castrum Podii Piconischi mantiene al suo interno una chiesa o oratorio (s. Tomaso) con un proprio rettore. La chiesa non ha cura animarum, ma (semplici) pesi annuali di messe in suffragio di defunti. Ambedue, chiesa e castello, non prevedono tempi sfortunati o bui.

Nel sec. XVI s. Tomaso è affiancato prudentemente dall’ampia chiesa della Immacolata Concezione di Maria Sempre Vergine del sottostante convento cappuccino di Cicoli: proprio il Sindaco e i Massari di Poggio Poponesco hanno voluto e fatto fondare, nel 1568, quel convento. La Immacolata Concezione richiamerebbe molto ‘popolo’ devoto, non soltanto da Flamignano e da Mercato nominati – che distano dal convento appena “due tiri di balestra” –, ma anche dai castelli e ville di oltre fiume Salto, specialmente nel periodo della Quaresima che i predicatori cappuccini “evangelizzano la parola di Dio”. Ma nel sec. XVII il castello di Poggio Poponesco è decisamente ruinato. Allontanatisi i suoi abitanti, ha dovuto rinunciare alla fisionomia svelta e turrita che possedeva, e ai cumuli delle sue macerie ora affida la memoria del suo cessato dominio.

Villa Flamignani o Flamignano ‘continua’ invece: insediata nel suo ‘luogo aperto’ ovvero ‘non murato’, raccoglie questa memoria e la confonde con quella misconosciuta delle proprie origini. Per farlo allontana come ipotesi o grata erudizione il particolare che in epoca arcaica possa aver fatto parte del consorzio di villaggi sparsi che in loco costituiva la favolosa città pelasgica di Vésbula. Non s’azzarda a veder più in là di ciò che è evidente nel suo tenimento: i resti di mura ciclopiche (Le murate) a s. Angelo in Aquilone che, ventoso, s’annunzia da sopra La Serra e, in basso, nella costa coltivata, quelli del poderoso terrapieno che sostiene s. Lorenzo in vallibus presso Marmosedio.

E tuttavia Flamignano avverte che il (lungo) dominio del castrum Podii Piconischi ha risolto in una certa e durevole unità il continuum dei rapporti fra i ceti sociali, delle pratiche colturali del saltus, delle consuetudini dell’industria armentizia cui i pascoli montani che si dispiegano dietro La Serra non bastano, e sono stagionalmente indispensabili anche quelli della lontana Campagna Romana. E in questa ragionevole unità può intravedere anche un nucleo d’origine più antica (forse quello che s’inizia dai tempi della nominata città di Vésbula), che quel dominio ha raccolto, rielaborato ed inserito per propria utilità fra i suoi statuti o norme. Cosicché Flamignano trova altra e intima ragione per insistere nella pratica degli stessi luoghi con le medesime attività e con i medesimi rapporti sociali.

Un fiore nemmeno insolito diventa allora la ‘antica’ ed anonima previdenza che a Mercato venisse ubicato – chissà da quale epoca arcaica – un foro per le vendite e/o gli scambi di bestiame e di merci. Il lungo operare dell’epoca in corso (secc. XV e XVII) non ne potrebbe fare ancora a meno nemmeno per Flamignano (si sa come anche secoli dopo, e precisamente nel 1816, il paese omonimo reclamerà con motivata insistenza l’istituzione di una fiera, quella de La Madonna degli Angeli, per il 2 agosto di ogni anno).

Cosicché il territorio stesso, adorno di passato che non tramonta, non fa fatica a fare individuare nella montagna che si distende dietro La Serra l’inesauribile scrigno dell’economia locale: allevamento e mandrie di bestiame grosso (e piccolo), e poderi prativi e arativi che si aggiungono come una manna ad altri del saltus, per i grandi e medi proprietari; sòccite, per i piccoli proprietari; opere o servizi di garzonato nelle industrie dei grandi e medi proprietari, per i contadini nullatenenti, stretti anche dal bisogno di ritagliarsi qualche lembo di terra dai demani indivisibili per seminarvi quel po’ che possono.

Tuttavia più tardi, nel sec. XIX, sarà proprio questo immobilismo funzionale alla ristretta economia agro-pastorale del posto ad avvertire di non avere più forza per contrastare, nell’età moderna, i rapporti sociali ed economici che questa dispiega meno rigidi, sempre più dinamici.

Nel settembre 1860 Fiamignano, già parte del Regno di Napoli, aderirà senza esitazione al governo di Vittorio Emanuele II. Tutti in paese sanno che dalla sommità di Monte Nuria – che è dietro La Serra – si scorgono “Roma e molte città e campagne”.

Luciano Sarego

Il ponte sottile delle tradizioni. Abruzzo

1. Nell’ultimo trentennio del sec. XIX Antonio De Nino (1833-1907) individuava durante ostinate ma fortunate escursioni nel Cicolano le vestigia di una civiltà antichissima, che – come deduceva – gli sembrò subito quella mitica dei Pelasgi; nello stesso periodo, muovendosi instancabilmente di paese in paese e contando su intermediari, raccoglieva notizie di usi e di costumi, e testi di narrazioni

tradizionali nei quattro comuni (Borgocollefegato, ora Borgorose, Fiamignano, Pescoroccchiano, Petrella Salto) della stessa regione.

Aveva fermo il proposito di provvedere ad una Raccolta «completa e seria di usi e costumi» dell’intero suo Abruzzo, che per non poche ‘bizzarrie’ riusciva a lui stesso – come ammetteva – «caratteristico». Ma certo anche le memorie di figure e di fatti della provincia – così come le avrebbe potuto cogliere dalla voce della gente comune oltre che dalle relazioni, libri o altri scritti dei più informati del luogo eruditi e no – ne avrebbero potuto fare parte. In tal modo egli abbracciava «la vita reale del popolo, colle sue assidue vicende, dall’amore alla morte» – ne era convinto – ovvero tutte le opere di esso assieme agli umori e sentimenti, giudizi e convincimenti che le accompagnavano, come nella pratica succedeva dinanzi agli occhi di tutti.

Era da credere che «l’aspetto sostanziale del popolo» fosse qui – diceva –, nel complesso degli usi e costumi correnti che infittivano: usi «comuni» che non erano all’epoca ancora tramontati, ed altri, invece particolari, che, «generalmente scomparsi», erano però «rimasti soltanto nei piccoli paesi e nelle città isolate», e sempre servivano, per fortuna, «quale anello di congiunzione tra la civiltà antica e la moderna».

A. De Nino apprestava in tal modo dall’Abruzzo i materiali e i modi per una «vera storia del popolo italiano». In definitiva, considerando anche l’apporto, richiesto e augurabile, del complesso delle tradizioni scritte regionali, avviava all’epoca dall’Abruzzo un modello di ‘nuova’ e viva storia patria.

Era – come lui stesso si considerava, e voleva rimanere – un «semplice raccoglitore di materiali etnografici». Questi, riuniti, sarebbero serviti come utili «contribut[i] alla storia generale d’Italia».

2. Il 1 marzo 1907 De Nino moriva a Sulmona. Il Comune volle fargli i funerali a proprie spese, e i funerali, «oltre che imponenti, riuscirono commoventissimi». Seguì, il 9 dello stesso mese, un denso necrologio di Tito Battaglini sull’Indipendente di Aquila. Tutto – funerali e necrologio – era espressione di «trafittura di dolore immenso, indicibile» che si prova per la scomparsa dello studioso, e tutto scioglieva in sincera riconoscenza per la sua opera che da Sulmona aveva abbracciato l’intero Abruzzo con il fine di mostrarne adeguatamente i caratteri.

T. Battaglini giudicò che De Nino fosse stato «più propriamente […] un poeta del passato» ovvero delle «nostre glorie passate» – e lo proclamava – , piuttosto che un «archeologo esimio» o «folklorista geniale» come altri pur tenevano a definirlo. Sapeva anche lui che un irrefrenabile spirito d’indagine lo aveva mosso occupandolo, in definitiva, in molteplici campi di osservazione e studio, eppure a quello spirito dava (esclusivamente) la finalità ultima o «sogno nobile» di «strappare, per quanto era possibile, come un ‘thesauro abscondito in agro’ i misteri della grandezza avita dal seno tenebroso del passato; [e di] fare risentire all’attuale generazione i fremiti potenti delle glorie di sua schiatta». Esclamava: «Eccola l’eredità di Antonio De Nino!».

Ancora, ripeteva di buon grado che l’opera coscienziosa e perseverante di De Nino aveva «aperto […] il grembo del passato», e che, a questo aveva strappato «nuovi segreti, nuovi fasti», in pratica «fatti e […] glorie sconosciuti che gli altri non avevano mai compreso». Amava concludere che quei fatti e quelle glorie erano come tanti rubini e tanti diamanti che impreziosissero «vieppiù il genio glorioso» abruzzese.

Nel momento tragico per la perdita di De Nino comunque non poteva essere dimenticato che il suo notissimo ‘girondolare’ per l’Abruzzo era stato, invece, per metterne in evidenza «la vita intima del popolo» dei suoi tempi.

Il folklorista scomparso aveva bene indicato, in vita, i principali ‘luoghi’ che secondo lui sono come fucine per la storia di popolo: il «focolare domestico, […] le conversazioni degli amici, […] le chiese, […] i caffè, […] le canove, […] le piazze, […] le borse, […] i teatri, […] le stazioni di strade ferrate, […] le caserme, […] le prigioni, […] le botteghe, […] le officine, […] le capanne». Indicava che lì «e non altrove» bisognasse «ricercare le origini degli avvenimenti politici, e anche di quelli più clamorosi».

Andava da sé – come gli sembrava – che in quegli stessi ‘luoghi’ fossero praticate le tradizioni (non soltanto quelle degli usi), fino a che fossero servite anch’esse utilmente per esercitare la contemporaneità del vivere. E certo fra esse, alcune già s’erano affievolite fino a divenire «stran[e] alla generalità» e isolate ovvero fino a dichiararsi sopravvivenze di tempi che hanno preceduto: e sarebbero cadute, infine, ma non prima di avere ceduto alle tradizioni rimaste vitali la funzione di mantenere costante il tenue legame con le indefinite età ‘antiche’, che le avevano viste tutte nascere e/o passare.

3. Decisamente vacui né di qualche utilità nei tempi moderni riuscivano più tardi, nel primo ventennio del secolo XX, le credenze e i costumi abruzzesi all’inglese Estella Canziani (1887-1964), membro della «Folk-Lore Society».

La folklorista inglese conosceva quelle credenze e quei costumi attraverso non solo le opere di De Nino ma anche quelle di Gennaro Finamore (1836-1923). Aveva concluso che essi, non più funzionali, non fossero nient’altro che moti di selvatichezza e persuasioni superstiziose di gente moderna sprovveduta ancorché, in alcuni casi, sorprendentemente miserabile. In Abruzzo, dove si recò nel 1913 per darne in seguito alla «Folk-Lore Society» la sua personale testimonianza, le sembrò proprio il caso di confermarseli come perfette sopravvivenze, e di considerare ‘antiche’, per nulla contemporanee, anche le personalità dei loro portatori.

Nel 1928, pubblicando il resoconto del suo viaggio, dava ai connazionali anche l’occasione, già con l’elenco dei suoi intermediari e dei suoi informatori: conducenti di veicoli noleggiati, negozianti, contadine, pastori e altri montanari, ma anche ingegneri, capistazione, preti, sacrestani, farmacisti, maestri, di notare come tali credenze e costumi non potessero, nell’Abruzzo del 1913, limitarsi al volgo ovvero agli «imi strati sociali» che Finamore aveva bollato come «gente che [vive] tuttora nella infanzia mentale» e anzi quanto fossero, in quello stesso Abruzzo, comuni presso il «popolo» cui De Nino aveva detto con orgoglio di appartenere.

4. Settimio Adriani di Fiamignano è un faunista, spesso impegnato a monitorare l’ecosistema del Cicolano. Nondimeno nei lavori specifici del suo ‘mestiere’ non si allontana – se occorra – dalla ‘descrizione’ puntigliosa della condizione tradizionale, in buona parte scomparsa, del proprio paese e territorio.

Non poeta – come pure ammette – s’è cimentato nella composizione in dialetto fiamignanese di «quartine semiserie». Lo ha fatto per puro svago, suo e degli amici di bar o d’osteria (Quartine e quartucci, 2003): ma è dell’opinione che quel dialetto, benché allora in uso, avesse, in verità, bisogno di quelle quartine per riacquistare almeno un po’ di «fiato» ovvero un po’ di forza prima di tornare alla risolutezza originaria di veicolare termini pregnanti per gli umori e i sentimenti quotidiani, gli

stessi lisciati oltremodo dalla lingua nazionale; dice che, sempre allora, ha preferito la quartina tra le altre strofe, perché essa è l’unica che «s’avvicina alla nostra antica forma di rimeggiare». In seguito, ha ridotto in opera letteraria un bel manipolo di memorie correnti sul brigantaggio post-unitario che ha afflitto il Comune di Fiamignano (Racconti di briganti, 2005).

È da credere che gli aspetti demo-antropologici dei luoghi fiamignanesi che esamina siano, nei suoi studi di faunistica, ‘materiali’ complementari irrinunciabili (Pastorizia e agricoltura montana, 2007), ma occorre anche prendere atto che una propensione connaturata, quella di esercitare in ogni caso l’attenzione sulla condizione rurale e passata e presente dell’intero Cicolano, lo trasporti (ne è specchio, a mio parere, Io, la fame e l’accetta, 2007, una ‘storia di vita’ che, suggeritagli dalle fitte notizie dell’informatore intervistato, pure scrive assieme ad altri faunisti).

Quei ‘materiali’ sono, insomma, per S. Adriani come la porta dello stesso Cicolano: per questo stesso indirizzo di ricerca, che egli condivide con altri ricercatori locali, si sfoglino anche i due opuscoli recenti Il corredo della sposa. Tradizione degli anni 1950-1970 nel Cicolano, 2011, e Allegri, figli miei, che il lupo non ve se le mangia più le pecorelle, 2011, che rende nota una imprevista quanto originale officina poetica dialettale e no di poeti-pastori di Fiamignano (di ambedue gli opuscoli sono coautore).

5. È proprio per il moderno Cicolano che Adriani licenzia ora i risultati d’una sua inchiesta (l’ultima in ordine di tempo) su Il maiale. Allevamento (macellazione e conservazione della carne), corredata – come è suo stile compositivo – di ‘materiali’ folklorici appropriati al tema della ricerca (in questo caso sono racconti tradizionali, e indovinelli, stornelli, proverbi, satire e ‘rime’).

Il Cicolano – si sa – è come l’ultima terra dove raccogliere l’ultimo folklore: è spopolato, e i suoi confini si ricordano a se stessi, già per questo difetterebbe di notizie e di testimonianze orali utili allo scopo di ogni inchiesta sul campo, eppure la sua fisionomia provata da trapassi economici e sociali è ferma ad aspettare nuove indagini da nuovi ricercatori.

Nell’aura apparentemente neutra che vi è diffusa Adriani cala con convinzione i modi del suo impegno nell’inchiesta su Il maiale: al riguardo dispone di una documentazione che ha già riunito negli anni 1970 tramite interviste e colloqui, e questa si arricchisce di un’altra documentazione, egualmente necessaria e complementare della prima, che si è premurato di raccogliere di recente con nuove ricerche sul campo e con questionari, assommando tra l’una e l’altra ben ottantasei informatori.

Penso che il Cicolano resti un crocevia. Chi vi dimora sta dentro labili tradizioni, e si affaccia su altre che non si sono allontanate troppo dalle case che siano rimaste invece deserte. Per il momento non immagino diversamente il tornare di tanto in tanto di Adriani nel suo paese di Fiamignano: libero dagli impegni del suo insegnamento a scuola, egli è forse attorno ad un tavolo di bar o nella sede della Pro Loco con amici giovani e vecchi, tra il vocìo di altri avventori o soci e il rumore, all’esterno, di automobili per la strada pubblica, a parlare di questo e di quello, a scambiare opinioni sul senso della salvaguardia del lupo in montagna, a ‘rivangare’ tempi andati e anche remoti, ad ascoltare ‘storie’ antiche e moderne di paese, a rintracciare vecchie lettere e vecchie fotografie e poesie.

Credo che questo sia il ‘tempo presente’ in paese di Adriani faunista e ricercatore di tradizioni. Del resto egli ve lo spenderebbe volentieri: ha sempre giudicato che l’Umanità dei suoi interlocutori fosse infinita. Sa che essa, esercitata in lunga esistenza, ha reso i compaesani più vecchi «veri signori e maestri di vita».

LUCIANO SAREGO

 

Il lupo alle porte. Coscienza nuova

Eppure, ancora ai nostri giorni, anche lo studio provvido della fauna, e le ricerche che dispiega privilegiando la costruzione di gestioni accorte del territorio in aiuto di specie animali in pericolo di estinzione o (semplicemente) da reintrodurre, giustificherebbero la positiva instancabile attività del dominio dell’uomo sugli animali quale principio rispettoso degli equilibri naturali.

Come si legge nella Genesi, è nella “terra deserta e disadorna” della sua Creazione – proprio alle origini del ‘mondo’ – che Dio stabilì il “germogliare [del]la verdura, le graminacee produttrici di semenza e gli alberi […] che producano […] un frutto contenente il proprio seme, ciascuno secondo la propria specie”; e che sopra di essa volassero “tutti i volatili alati, secondo la loro specie”, e che invece, nelle acque, brulicassero “i grandi cetacei e tutti gli esseri viventi guizzanti, […], secondo le loro specie”. Ed è anche noto che Egli si rivolse alla terra, affinché producesse “esseri viventi, secondo la loro specie; bestiame e rettili e fiere della terra, [sempre] secondo la loro specie”.

Ma è all’uomo – sua immagine nell’ordinato creato – che Dio pensò di riservare il dominio “sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”: predispose come primo esercizio di quel dominio – si legge nella Genesi – la rassegna inderogabile di tutti quegli animali, lasciando che, con lo scopo di imporre a ciascuno di essi il nome pertinente, fosse l’uomo ad esaminarli.

Si trattò così del passaggio – come si comprende – di quel fondamentale istituto del dominio alla Storia dei secoli in avvenire: ogni generazione d’uomini, durante questi secoli, avrebbe imparato a distinguere per proprio vantaggio il bestiame (che addomesticava) dalle fiere o belve (che respingeva in spazi affatto selvatici e remoti), e queste ultime (e, specialmente il più astuto, e soprattutto letale, il serpente) avrebbe dette dannose per le proprie attività ed industrie.

Più tardi, tra quelle fiere (selvatiche), sarebbe stato il lupo a minacciare, irrequieto, i labili confini tracciati dagli uomini fra abitati, e campagne e macchie e selve non battute, e a rappresentare tutto il male immaginabile, a causa della rapacità, voracità e spietatezza che esso palesava in scorribande e in azzardate incursioni fuori la propria area.

Nel sec. XIII la Vita seconda su s. Francesco d’Assisi assicura che a Greccio, “qualche tempo” dopo la celebrazione del Natale dell’anno 1223, gli abitanti (ancora) pativano sotto le calamità delle “torme di lupi rapaci [che] attaccavano bestiame e uomini” e della “grandine [che] stroncava ogni anno messi e viti”. Il Santo aveva additato pubblicamente le cause che avevano attirato un così insistente flagello, aveva invitato i grecciani alla confessione e penitenza, e, infine, per suoi meriti e preghiere, lupi e tempesta “non recarono più molestia”. Si ripresentarono, tuttavia, non appena i grecciani, affogati nel benessere, abbrutirono, e allora una guerra e una epidemia si aggiunsero ai precedenti due mali per renderli più acuti. Nel sec. XIV la Leggenda perugina ancora ripete, ed amplia per quanto può, questa testimonianza. Ẻ negli anni di soventi permanenze di s. Francesco nell’eremo prediletto di Greccio – essa dice –, entro un luogo di gente devota ma non monda da peccati, che si registrano da “parecchi anni” le due note calamità (“la zona è infestata da grossi lupi, che divora[no] le persone, e ogni anno campi e vigneti [sono] devastati dalla grandine”). Soltanto dopo il pentimento della popolazione, su “disposizione divina”, e per i “meriti” del Santo, subentra un lungo periodo (ben sedici o venti anni) di serenità. Le due calamità si riaffacciano, invece, quando quella stessa popolazione, arricchitasi, s’insozza perversamente, e per di più, successivamente, è travagliata da una guerra.

Colpisce, in ambedue le fonti francescane, l’altalenare del Male desolatore del territorio in coincidenza dei comportamenti scostumati e irrazionali della popolazione. Ẻ che esso insorgerebbe – come si indovina – puntualmente ad ogni inavveduta modifica o interruzione di rapporti di attività e commercio, e di equilibri sociali in atto, tanto che nella pratica rimodellerebbe anche estensione e confini delle aree di rifugio e di caccia di tutti gli animali selvatici. Si può pensare, allora, che, nei periodi oscuri delle disgrazie e pianto toccate nel sec. XIII agli abitati grecciani, il ripetuto dilagare dei lupi non sia stato che una ‘risposta’ istintiva di questi stessi incolpevoli animali. Santo Francesco non avrebbe fatto altro che renderne persuasi i superbi grecciani. Già tempo prima, inoltrandosi verso l’Abruzzo, ha predicato alle genti l’armonia stabilita fra le molteplici specie delle creature nel ‘mondo’.

Avrà toccato in quella occasione, il suo Cammino, anche la terra montuosa e severa dell’Amatriciano? Qui l’avrebbero in ogni caso preceduto le prime predicazioni degli apostoli Pietro e Paolo. E Pietro, in particolare, avrebbe ordinato alle vipere di non infestare più, nelle campagne, abituri degli uomini e stalle del bestiame domestico: di riparare in luoghi più alti e non trafficati. Così l’apostolo avrebbe ricordato agli uomini indifesi dell’Amatriciano che il dominio su tutti gli animali è esercitato dall’uomo a fini di armonia.                                                                                                                                   

Luciano Sarego