Eppure, ancora ai nostri giorni, anche lo studio provvido della fauna, e le ricerche che dispiega privilegiando la costruzione di gestioni accorte del territorio in aiuto di specie animali in pericolo di estinzione o (semplicemente) da reintrodurre, giustificherebbero la positiva instancabile attività del dominio dell’uomo sugli animali quale principio rispettoso degli equilibri naturali.
Come si legge nella Genesi, è nella “terra deserta e disadorna” della sua Creazione – proprio alle origini del ‘mondo’ – che Dio stabilì il “germogliare [del]la verdura, le graminacee produttrici di semenza e gli alberi […] che producano […] un frutto contenente il proprio seme, ciascuno secondo la propria specie”; e che sopra di essa volassero “tutti i volatili alati, secondo la loro specie”, e che invece, nelle acque, brulicassero “i grandi cetacei e tutti gli esseri viventi guizzanti, […], secondo le loro specie”. Ed è anche noto che Egli si rivolse alla terra, affinché producesse “esseri viventi, secondo la loro specie; bestiame e rettili e fiere della terra, [sempre] secondo la loro specie”.
Ma è all’uomo – sua immagine nell’ordinato creato – che Dio pensò di riservare il dominio “sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”: predispose come primo esercizio di quel dominio – si legge nella Genesi – la rassegna inderogabile di tutti quegli animali, lasciando che, con lo scopo di imporre a ciascuno di essi il nome pertinente, fosse l’uomo ad esaminarli.
Si trattò così del passaggio – come si comprende – di quel fondamentale istituto del dominio alla Storia dei secoli in avvenire: ogni generazione d’uomini, durante questi secoli, avrebbe imparato a distinguere per proprio vantaggio il bestiame (che addomesticava) dalle fiere o belve (che respingeva in spazi affatto selvatici e remoti), e queste ultime (e, specialmente il più astuto, e soprattutto letale, il serpente) avrebbe dette dannose per le proprie attività ed industrie.
Più tardi, tra quelle fiere (selvatiche), sarebbe stato il lupo a minacciare, irrequieto, i labili confini tracciati dagli uomini fra abitati, e campagne e macchie e selve non battute, e a rappresentare tutto il male immaginabile, a causa della rapacità, voracità e spietatezza che esso palesava in scorribande e in azzardate incursioni fuori la propria area.
Nel sec. XIII la Vita seconda su s. Francesco d’Assisi assicura che a Greccio, “qualche tempo” dopo la celebrazione del Natale dell’anno 1223, gli abitanti (ancora) pativano sotto le calamità delle “torme di lupi rapaci [che] attaccavano bestiame e uomini” e della “grandine [che] stroncava ogni anno messi e viti”. Il Santo aveva additato pubblicamente le cause che avevano attirato un così insistente flagello, aveva invitato i grecciani alla confessione e penitenza, e, infine, per suoi meriti e preghiere, lupi e tempesta “non recarono più molestia”. Si ripresentarono, tuttavia, non appena i grecciani, affogati nel benessere, abbrutirono, e allora una guerra e una epidemia si aggiunsero ai precedenti due mali per renderli più acuti. Nel sec. XIV la Leggenda perugina ancora ripete, ed amplia per quanto può, questa testimonianza. Ẻ negli anni di soventi permanenze di s. Francesco nell’eremo prediletto di Greccio – essa dice –, entro un luogo di gente devota ma non monda da peccati, che si registrano da “parecchi anni” le due note calamità (“la zona è infestata da grossi lupi, che divora[no] le persone, e ogni anno campi e vigneti [sono] devastati dalla grandine”). Soltanto dopo il pentimento della popolazione, su “disposizione divina”, e per i “meriti” del Santo, subentra un lungo periodo (ben sedici o venti anni) di serenità. Le due calamità si riaffacciano, invece, quando quella stessa popolazione, arricchitasi, s’insozza perversamente, e per di più, successivamente, è travagliata da una guerra.
Colpisce, in ambedue le fonti francescane, l’altalenare del Male desolatore del territorio in coincidenza dei comportamenti scostumati e irrazionali della popolazione. Ẻ che esso insorgerebbe – come si indovina – puntualmente ad ogni inavveduta modifica o interruzione di rapporti di attività e commercio, e di equilibri sociali in atto, tanto che nella pratica rimodellerebbe anche estensione e confini delle aree di rifugio e di caccia di tutti gli animali selvatici. Si può pensare, allora, che, nei periodi oscuri delle disgrazie e pianto toccate nel sec. XIII agli abitati grecciani, il ripetuto dilagare dei lupi non sia stato che una ‘risposta’ istintiva di questi stessi incolpevoli animali. Santo Francesco non avrebbe fatto altro che renderne persuasi i superbi grecciani. Già tempo prima, inoltrandosi verso l’Abruzzo, ha predicato alle genti l’armonia stabilita fra le molteplici specie delle creature nel ‘mondo’.
Avrà toccato in quella occasione, il suo Cammino, anche la terra montuosa e severa dell’Amatriciano? Qui l’avrebbero in ogni caso preceduto le prime predicazioni degli apostoli Pietro e Paolo. E Pietro, in particolare, avrebbe ordinato alle vipere di non infestare più, nelle campagne, abituri degli uomini e stalle del bestiame domestico: di riparare in luoghi più alti e non trafficati. Così l’apostolo avrebbe ricordato agli uomini indifesi dell’Amatriciano che il dominio su tutti gli animali è esercitato dall’uomo a fini di armonia.
Luciano Sarego